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Per Edith Bruck i ragazzi di adesso più sensibili delle generazioni precedenti

Si è tenuto, in una sala, del Polo Santa Marta dell’Università, strapiena sia di giovani sia di persone dai capelli grigi, l’atteso incontro con la scrittrice e poetessa Edith Bruck. Dopo il saluto, a nome del Magnifico Rettore, della professoressa Olivia Guaraldo, è iniziato l’incontro, purtroppo da remoto, con la scrittrice che ha dialogato con Michela Ponzani, storica e giornalista e con il professor Renato Camurri, docente di storia dell’Ateneo scaligero. La scrittrice è partita proprio dalle origini quando, nel 1944, un gruppo di fascisti ungheresi fece irruzione nella sua misera casa, in un villaggio al confine con la Slovacchia. Erano una famiglia ebrea molto povera e Edith era l’ultima di sei figli, e il ricordo più vivo è quello della mamma che, appena finita la Pasqua ebraica, stava impastando del pane, con la farina regalatale da una vicina. E, proprio “Il pane perduto”, diventerà il titolo di un suo libro nel ricordo della disperazione della madre per la perdita del pane appena impastato e lievitato. La famiglia fu trasferita nel ghetto cittadino dove lei vide, per la prima volta, dei nazisti. Rimarca su questo tasto perché, finita la guerra ci fu un tentativo, come anche Italia, di cercare di scindere le responsabilità delle atrocità dei nazisti da quelle dei fascisti locali. Dal ghetto, con carri bestiame, furono deportati ad Auschwitz. Nel famigerato campo vi fu la prima delle quattro luci che Edith descrive quando, appena arrivati, vi fu subito una selezione, a sinistra camere a gas, a destra lavori forzati. Lei, aggrappata alla mamma destinata a sinistra, non voleva abbandonarla nonostante un tedesco le dicesse di andare a destra. Poi il tedesco colpì la mamma che crollò a terra e la ragazzina fu mandata a destra. Da Auschwitz fu trasferita in altri terribili campi. A Dacau fu messa a lavorare nelle cucine degli ufficiali e, uno dei ricordi più tristi e dolorosi, era l’atteggiamento di scherno e offese, sputi e quant’altro, dei figli, poco più che bambini, degli ufficiali nei loro riguardi. La seconda luce fu quando un cuoco le chiese come si chiamava e non il numero di matricola, come era la prassi, numero che lei non ha tatuato perché, ad un certo momento, erano troppi i prigionieri e attaccarono al collo di ognuno una targhetta. Quindi la terza quando un tedesco le scaglio contro una gavetta con dentro una goccia di marmellata e, infine, la quarta a Bergen Belsen quando arrivarono, dopo la famigerata marcia della morte di oltre 500 km, e trovarono il campo coperto di cadaveri che dovevano trascinare, con uno straccio, alla torre della morte e un uomo morente le raccomandò di raccontare tutto quello che aveva visto perché ci sarebbe stato chi non  avrebbe creduto. Il 15 aprile 1945 fu liberata, insieme alla sorella maggiore di quattro anni, dagli americani. Non rivedrà più la mamma, il papà e un fratello. Il rientro in Ungheria fu altrettanto doloroso infatti per i suoi connazionali era rimasta l’ebrea. Decise quindi di avventurarsi, attraverso la Cecoslovacchia, per raggiungere Israele, che, nei racconti della mamma, era la terra promessa. Arrivò in Israele nel 1948 ma la delusione fu grande, non erano tutte rose fiori come sperava, infatti lo Stato d’Israele era appena nato e doveva difendersi dagli attacchi delle nazioni arabe. Lì era considerata l’ungherese. Dopo qualche anno si traferisce in Italia, dove sarà considerata la sopravvissuta, prima a Napoli quindi a Roma dove conosce Nello Risi che sposerà. Comincia a scrivere, dopo il libro autobiografico “Chi ti ama così” quindi “La signora Auschwitz” “Lettere alla madre” per arrivare al 2000 con “Il pane perduto” Premio Strega giovani. Significativo l’incontro, lo scorso 27 gennaio, con Papa Francesco che per lei è stata una grande luce. Il suo rammarico più grande è il tentativo di coprire con il silenzio la tragedia che ha colpito milioni di ebrei e non solo. L’antisemitismo non è stato sradicato ma è sempre vivo e attivo mentre, il grande fallimento dell’uomo deriva dal tentativo di negare. Purtroppo nelle scuole non si insegna abbastanza anche se, sono sue parole, le ultime generazioni sono molto più sensibili di quelle che le hanno precedute. Il suo impegno, seppur novantenne, è e sarà quello, fino che avrà voce, di raccontare questa immane tragedia che ha colpito l’umanità.

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